ELENA EL ASMAR
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Segni per far fiorire vasi, 2017, intervista con Francesca D'Aria per ATP Diary
Spargo, lancio, divido, cospargo, 2018, intervista con Elena Bordignon per ATP Diary



Reverie, 2016
di Francesca Pasini
La quarta vetrina, Libreria delle donne di Milano

Gli arazzi di Elena

Lo stato di contatto tra immaginazione e pazienza, tra disegni e fili dell’esistenza, è spesso associato agli arazzi. Da qui il modo di dire, arazzo della vita?

Elena El Asmar li chiama Reverie. Una grafia “sbagliata” per un contatto giusto con la lingua madre. E’ nata in Toscana, da mamma italiana e papà libanese. Si sente la pronuncia. Torna la storia di questa pratica artistica affidata per secoli alle donne: le mani erano loro, ma il disegno proveniva dagli uomini. Elena crea un neologismo e gli arazzi se li disegna da sé. Poi passa la mano a una tessitura industriale.
La storia si rovescia.
Ricordi e immaginazione si sovrappongono un passo dopo l’altro.

Elena ama camminare perché è il suo metodo per interrompere “la linearità”. Nella ripetizione la natura non si ripete mai. Disegnare, scrivere, tessere sono l’esercizio umano per camminare accanto alla natura.

Gli arazzi di Elena hanno la pazienza della ripetizione quotidiana. Non si addossano in modo lineare alle pareti, si sovrappongono uno sopra l’altro  come se la vetrina li indossasse. Il diaframma del vetro lascia fluire la luce, fa brillare i colori (bianchi, neri, grigi), fa intuire trama e ordito, recto e verso.

Negli arazzi di Elena sono disegnati oggetti alla portata di tutti.
Non c’è “la pretesa di possederli”, ma di  trasformali in soggetti. Due candelabri che hanno accompagnato le sue case diventano fantastiche architetture, un po’ antica Roma, un po’ Arabia Felix. La finestra da cui guarda la campagna, all’alba, dopo una nevicata, trasforma il panorama in una terra fantastica. Tutto avviene attraverso la pellicola trasparente di un disegno attaccato sul vetro.  Nel terzo, la fotografia di una scultura, una volta tessuta, orienta lo sky line di una città fiabesca, dominata da un “minareto”.
Nella sovrapposizione ognuno perde qualche segno, ma ognuno acquista spazio dall’altro.

“Orizzonti accatastati uno sopra l’altro che non sono mai riuscita ad archiviare e distinguere”, dice Elena. L’arazzo della vita vuol dire ripercorrere il cammino, tenere  di nuovo in mano i fili sprofondati nella trama.





L'esercizio del lontano, 2015

di Saretto Cincinelli, 2015
scritto in occasione della mostra Après coupe (dischiusure)
, ex Lanificio Lucchesi, Prato, in occasione di TAI - Tuscan Art Industry

Abitare la distanza
sembra essere l'aporetico intento che muove la ricerca di Elena El Asmar, artista di origine libanese, nelle cui installazioni la distanziazione -continua riscoperta della distanza e dell'alterità- si rovescia paradossalmente in una modalità dell'approssimarsi che ci colloca contemporaneamente dentro e fuori, vicini e lontani rispetto all'opera stessa, in un luogo in cui L’esercizio del lontano rende plausibile, la trasfigurazione di vetri avvolti in trame arabescate, in una sorta di paesaggio capace di restituire, “il sogno fenicio” dell'artista: l'apparenza intermittente di uno sfavillante paesaggio medio-orientale sospeso in un interno occidentale dismesso.





Il tempo sospeso del Vespro. Raccontato da Elena El Asmar
di Gaia Vettori, 2014
articolo scritto per Espoarte
in occasione della mostra Vespertine, a cura di Matteo Innocenti, presso Moo Galleria d'arte, Prato.


Vespertine è il titolo della personale di Elena El Asmar, a cura di Matteo Innocenti, ora in mostra presso lo spazio espositivo MOO. Situata in una delle vie più problematiche del centro storico pratese, questa galleria è frutto di una felice volontà di recuperare un’area caratterizzata da degrado ed incuria. Vero e proprio white cube – che tanto avrebbe soddisfatto lo scultore Constantin Brâncuși – MOO irrompe con il bianco nitore delle sue pareti nel grigio di una via trafficata e, fino al 30 gennaio 2015, offre la possibilità di poter vedere la mostra dell’artista di origini libanesi Elena El Asmar (Firenze, 1978).

Le quattro opere presenti, pur formalmente diverse, sono accomunate dal fil rouge della memoria e del ricordo, ed il titolo, Vespertine, rimanda a quel particolare momento della giornata in cui il giorno sta per finire e la sera tarda ancora ad arrivare. Un tempo sospeso, dove tutto può accadere, a metà tra luce e buio, un tempo indefinito e sfuggente come lo sono i ricordi della nostra mente.

La prima stanza, caratterizzata da una luminosità quasi accecante, ospita due opere: Dispensar pensieri in tempo (2011), pasta bianca di cellulosa sulla quale è impressa la trama di una stoffa, modellata affinché sembri celare un oggetto imperscrutabile e Arioso Operoso (2013-2014), composta da 140 fotocopie in formato A4 – disposte su una parete – che mostrano la trama apparentemente uguale, ma in realtà sempre diversa, di un ricamo, usato come una sorta di matrice. Osservando queste due opere, si ha come la percezione di un invito a perdersi nella contemplazione, facendosi catturare dal loro fascino perturbante di oggetti sì in apparenza familiari, però caratterizzati da un profondo senso di mistero, esattamente come accade per i ricordi delle nostre esperienze vissute: una volta parte dei cassetti della memoria, esse sono infatti destinate ad essere per sempre oggetto di innumerevoli variazioni sul tema, fino a che la matrice originale sarà solo percepita come un fumoso e confuso momento a cavallo tra realtà e fantasia, tra luce e buio.

Proseguendo nel percorso, troviamo quindi Variabile di sentimento e di tempo (2011), situata in una piccola zona di passaggio della galleria, nello spazio semi-oscuro che precede l’ultima stanza laddove è collocato l’ultimo lavoro L’esercizio del lontano (2014). Queste due opere rappresentano chiaramente il percorso che l’artista ed il curatore intendono farci percorrere, questa volta non metaforicamente, attraverso l’ora del vespro: infatti, la luce si fa meno intensa, più delicata e compaiono i primi colori. Variabile di sentimento e di tempo è un piccolo quadro che ritrae due lampade bianche su fondo viola: quasi una sfida a riconoscere gli oggetti rappresentati, tanto l’aspetto meramente figurativo è lasciato in secondo piano a favore di una più intrigante volontà di evocazione simbolica di quello che fu, nel passato, il soggetto del quadro. Anche in questo caso, la “matrice” originale (e cioè le lampade) va a perdersi nei meandri della realizzazione e della conseguente interpretazione, a conferma della volontà dell’artista di collegare le opere presenti grazie al tema del ricordo, spesso confuso e nebbioso, sospeso per sempre in un momento mai chiaro, mai oscuro.

Infine, L’esercizio del lontano situato nell’ultima stanza della galleria: immersa in una luce violacea, troviamo una composizione verticale di oggetti in vetro tenuti insieme da una calza a rete color carne, sorretti da un parallelepipedo di un verde acceso. Sul soffitto, è poi proiettata una stella. Composizione complessa, immersa in una semi-oscurità colorata, è questa l’opera che forse maggiormente colpisce l’osservatore, il quale si trova a fissare oggetti di vetro trasparente che progressivamente vanno a fondersi con la parete retrostante: ancora una volta, ecco che ritorna l’invito a perdersi nel labirinto di una memoria confusa. Poco importa se le opere presenti siano il risultato della sensibilità dell’artista e del suo specifico punto di vista: il valore del lavoro di Elena El Asmar sta proprio nella sua capacità di coinvolgere il fruitore, accompagnandolo in un percorso attraverso la “simultaneità indecidibile tra virtuale e reale”, tra ombra e luce, in quel sacro (per la tradizione cattolica) e crepuscolare momento della giornata che prende il nome di “ora del vespro”.

Citando Elena El Asmar:

Se nulla ci è dato possedere,

possiamo almeno ascoltare una storia che ci accompagni 

dove una volta le cose erano 

e poi non sono state più.

…e qual conforto l’arrivo del crepuscolo

sia esso quello che ci introduce alla notte

sia esso quello che si rigetta nel giorno.





Vespertine

di Matteo Innocenti, 2014
scritto in occasione della mostra Vespertine presso Moo Galleria d'arte, Prato
.


Nella ricerca di Elena ricorre un carattere particolare, che agisce sulla coscienza stessa del reale attraverso una messa in relazione tra il ricordo e l'intuizione.
Il passato, non lasciato alla dimenticanza né ridotto a una dimensione di astratta fatalità, viene ancora scelto e attualizzato in alcuni suoi elementi; a emergere sono tracce lievi, eppure fortemente rappresentative dei significati trascorsi e di quelli a venire. Accade così che immagini dense di memoria,  tradotte senza cesura dalla dimensione intima dell'artista a quella condivisibile dell'opera, divengano un possibile orientamento per il presente.
In tale processo di recupero e di proposizione - lontano da ogni deriva malinconica, simile nel modo a un'attesa paziente e speranzosa - il titolo Vespertine assume un senso profondo, attinente: è l'ora del vespro, la breve fase crepuscolare del giorno entro cui non contano gli affanni del prima e del poi, ma la quiete che proviene dal nostro animo e che ci trascende. Tempo fuori dal tempo, luce che dolce trascorre verso toni più scuri, nella sospensione il rapporto tra uomo e mondo sembra farsi più comprensivo.                                           
Il corrispettivo formale e simbolico di ciò è spesso la trama. Essa evoca insieme l'ordine e l'improvvisazione, la pratica di un attento fare e un sempre possibile disfacimento. Vi è un equilibrio che si deve tenere in considerazione tra la scelta di un segno e la sua casualità.
Arioso Operoso è una grande parete di fotocopie derivate da uno stesso ricamo; conseguendo all'imprevedibilità del gesto iniziale nessuno dei segni può dirsi identico per composizione e intensità. Una dis-continuità che invita lo sguardo a illimitate letture da un punto all'altro, secondo distanze differenti; la percezione che ne deriva è ora quella di un insieme composito, ora quella di una deframmentazione.
Simile a una concrezione Dispensar pensieri in tempo si svela in un'apparenza fragile, di corpo delicato. Oltre l'ordito superficiale s'impone l'impressione delle mani, intervenute a modellare senza mediazione, con una velocità e un'invenzione più prossime al disegno che alla scultura. La duttilità della materia è servita a trattenere un'immagine non premeditata, affiorante nel suo
stesso farsi. Così il modo di presenza del soggetto, soprattutto il suo rapporto con lo sfondo – da cui sembra distinguersi ma anche essere riassorbito – è centrale in Variabile di sentimento e di tempo. Le due lampade a bianchetto su tela colorata, figure ricorrenti in altri quadri, in virtù della loro forma e delle loro trasparenze diventano mezzo per una compenetrazione tra i vari livelli pittorici.
Ne riprende la tonalità, secondo un percorso costituito da corrispondenze e gradazioni luministiche, L'esercizio del lontano, qui in versione singola. Installazione in altezza di  elementi uniti da una calza, la torre magica viene amplificata nel suo poetico mistero da una luce radente viola, generatrice d'ombra. Ancora il legame fertile di senso tra le cose del mondo, le nostra creazioni, i depositi del tempo. Seguendo le parole dell'artista: “Stare in questo spazio di confine, quasi di errore, che interrompe la continuità e la linearità alla quale vorremmo esser votati, è la posizione più vicina alla natura, ed al suo manifestarsi, e al suo splendore, che di ogni cesura, rilancio e crisi, tesse le lodi.”





In riva di un mare sonoro

di Pietro Gaglianò, 2013
scritto in occasione della mostra l'Esercizio del lontano presso Srisa Gallery, Firenze e dell'omonima pubblicazione edita da Gli Ori Editori. 


 I - Il paesaggio litoraneo in Calabria è in larga parte una scoscesa sequenza di cubi di cemento, ferri uncinati e altre devastazioni, come se un comune e taciuto obiettivo fosse quello di ricoprire tutto, a perdita d’occhio, con la peggiore edilizia immaginabile - per quanto ne so potrebbe somigliare al Libano, così aggrappato alla terra per non scivolare in mare, e l’idea che il sole ci sia sempre, solo che in Calabria nonostante le apparenze la guerra non c’è stata. Si racconta invece che Giuseppe Berto, quando arrivò a Capo Vaticano alla fine degli anni Cinquanta, dovette più volte aprirsi la strada nel fitto di una vegetazione rigogliosa, là dove oggi è difficile pensarsi se non fra automobili in sosta e fabbricati inguardabili. La visione che ho elaborato del luogo in cui sono nato si nutre con innumerevoli variazioni di entrambe le immagini: quella, mai vista, che ebbe Berto e quella più familiare, l’una e l’altra ugualmente autentiche per la mente anche se fondate da processi cognitivi diversi. Così la costa calabrese nella mia memoria assume una forma dettata da un arbitrio mitopoietico, che addensa fra loro elementi incongrui. 
 La distanza e il tempo impongono a questa produzione di immaginario una specie di metodo e una ripetizione involontaria che si protraggono fino a diventare lavoro, ma senza obbligo, un impegno creativo, un compito che per fortuna non prevede una misura per la sua verifica e non richiede il peso dell’esattezza. Dall’una e dall’altra riserva di figure discende una combinazione che non serve al passato, eppure ha il senso del ripiego involontario, e riguarda solo me, essendo dominata dalla nostalgia: quel dolore, 'algos', per il ritorno, ‘nostos’, che si riferisca a un punto originario dei miei anni o dei miei luoghi. Forse questo dipende dal fatto che non sono un artista, e non posso contare su una capacità di traduzione in termini formali, con un valore simbolico aperto, ma sono portato a generare solo, e a volte, pensieri complessi. 
Questa è una delle differenze tra la mia fabbrica di memorie e quella di Elena El Asmar. Oltre alla circostanza geografica che unisce e separa il Libano dalla Calabria. 

II - L’esercizio del lontano è una rappresentazione impossibile. È quello che resta della fatica di coniugare il ricordo e la memoria, e di scomporli, per ricavare dalla fissità eidetica del primo la natura porosa e vitale della seconda: come se il ricordo fosse l’inerte definizione dell’assenza e la memoria invece costituisse un’officina necessaria. Tra ricordo e memoria c’è un pendolo in perpetua oscillazione, senza ordine, lungo immagini che appartengono al passato – ma principalmente per una questione fisica, di spazio, solo perché nel momento presente ci troviamo in un luogo che non le contiene. Il ricordo è però anche l’unica condizione in cui tali figurazioni continuano a esistere in quella forma precisa, mentre nel loro luogo reale e nel loro presente sono già altro. Il ricordo trattiene queste immagini, la memoria invece le trasforma in una vita nuova, con la materia prima (anche quella dall’aspetto più ordinario) che trova a disposizione, e le rende a se contemporanee.
L’esercizio del lontano quindi si compie nel presente e, anche se non ha una destinazione definita, è al presente che si rivolge, e serve al futuro. Proprio per questa ragione riesce a prendere consistenza attraverso oggetti, e anche con forme, che niente hanno a che fare con l’aspetto originario del ricordo. In tal senso le immagini create dall’artista sono modelli inediti per la realtà, e l’analisi della loro natura chiarisce il mutamento di prospettiva tra la nostalgia (comune ai più) e il valore di questo esercizio. L’artista agisce necessariamente nel suo tempo, e con i condizionamenti della sua vita emotiva e intellettuale, con le pressioni della storia cui appartiene; ma l’esito della sua azione si riverbera in un’area molto più ampia, su cui l’autore non ha modo e interesse a mantenere il controllo. L’opera (qualunque sia il suo modo di manifestarsi) transita così dalla qualità di modello unico, e fino a quel momento ignoto, verso uno stato di condivisione con tutti gli altri attori del presente, per prendere la stessa sostanza della realtà e diventare  immediatamente disponibile per il futuro.
Torniamo infine alla corsa del pendolo, alla sua sospensione: nel punto più alto della sua curva, quando si può immaginarlo fermo per un tempo infinitesimo, in quel punto e in quel momento, l’esercizio del lontano diventa plausibile. E si costruisce, fatica dopo fatica, “il sogno fenicio” di Elena, come una città sfavillante vista sullo sfondo di un paesaggio costiero.

III - Bisogna ribadire che l’artista non si cura di cosa accadrà oltre l’orizzonte in cui il suo sguardo colloca l’opera, impegnato com’è a cercare la forma possibile, chino sul fallimento continuo della sua prova con il mondo. Solo a lui, all’artista, appare indispensabile l’intervento su una porzione microscopica di materia, che deve essere scurita, cancellata, sfilacciata, o rabberciata. Dopo, ma solo dopo, la differenza è visibile a tutti e per tutti è necessaria. La forma delle idee è un enigma senza soluzione, e i tentativi sono virtualmente infiniti. Sarebbe sufficiente anche solo questa di fatica, ma l’artista non può comunque rivendicare autonomia né disimpegno. Il suo modo di stare al mondo come artista è già misura della sua forza civile.

IV - Un’altra distanza tra il “mio Libano” e quello di Elena sta nel fatto che per poter oggettivare il mio Esercizio del lontano io ho bisogno di lei e della sua visione, lei non ha bisogno di me. 
Oppure posso fidarmi delle parole di un altro artista, un poeta, Sandro Penna: 

“Il mio Amore era nudo
in riva di un mare sonoro.
Gli stavamo daccanto
- favorevoli e calmi -
io e il tempo.


Poi lo rubò una casa.
Me lo macchiò un inchiostro. Io resto
in riva di un mare sonoro.”



Le immagini ci infatuano coi loro discorsi
di Elena El Asmar, 2014

scritto in occasione della pubblicazione Premio Santa Croce Grafica 2014 a cura di Ilaria Mariotti a Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno (Pisa).


"O forse escono da un forno, residui di una spaventosa cottura: sono ciò che doveva sopravvivere alle fiamme" Jean Genet, L'atelier di Alberto Giacometti

La pratica dell'incisione consiste nel creare una matrice lavorando una lastra, attraverso acidi - o altro - ed inchiostri, che vada poi a trasferirsi sulla carta in base alle scalfitture o campiture dettate dalla lavorazione della matrice stessa. Come nel disegno, che si svolge celebrando i limiti ed i confini propri delle immagini che accadono negli intarsi del nostro saper pensare ed immaginare, nel costruire una matrice per la stampa al torchio ho fatto sì che questa fosse il risultato di un processo dove le corrosioni e le imprimiture derivassero direttamente dalla posizione di un ricamo, scucito e ricucito, nel tentativo di sottrarlo alla sua storia, che fosse in grado di assorbire o meno l'inchiostro dalla lastra, come suggeriscono i vuoti dell'immagine.

Il torchio permette di rafforzare i segni di questa deviazione del tempo, ne celebra la sua andatura residuale, il suo darsi al presente in maniera sempre parziale rispetto al suo pulsare ininterrotto, celebrandone la perdita, o meglio evidenziando attraverso la perdita ciò che doveva sopravvivere al peso di una scrematura, di una crisi.

Ottenute così delle prime stampe a secco, dei bassorilievi prossimi alla scultura, il passaggio ulteriore è stato quello di tradurre la declinazione delle ombre in pittura. La lastra lavorata dalle stampe precedenti, dalle distanze e dai sedimenti, dall'assenza di un oggetto che ne aveva corroso la purezza, diviene ulteriore matrice destinata alla stampa. Da qui nascono le stampe su velina, sono il termine di una corsa, sono la celebrazione di una sottrazione avvenuta passaggio dopo passaggio, in un lento processo a perdere, hanno raccolto e unificato tutto ciò che è successo sul piano del torchio, le ho incollate su tela per intero, immortalando anche i movimenti destinati a scomparire dietro ad un sipario.





Tessiture della memoria

di Matteo Innocenti, 2013
articolo scritto per Artibune in occasione della mostra L'esercizio del lontano, 2013, a cura di Pietro Gaglianò.

 

L'impresa difficile di dar forma alla memoria trova nell'arte uno strumento potente, essendo spesso le opere un'espressione condivisibile dei trascorsi individuali. È così per Elena El Asmar, in mostra a Firenze, negli spazi di Srisa, fino al 15 aprile.

L’esercizio del lontano assume una forza caratteristica dalla sua introduzione testuale: nonostante la diversità di origine – il Libano di Elena El Asmar e la Calabria del curatore Pietro Gaglianò – l’esposizione si contestualizza proprio nel dialogo d’intesa tra l’artista e chi ha avuto cura del suo progetto. La chiave d’interpretazione offerta fa sì che l’installazione centrale, composta da elementi allungati di vetro in composizione di altezze e avvolti da calze nere a trama varia, trasfiguri in paesaggio collettivo. L’opera particolare si fa rappresentazione della maniera amorevole e delicata con cui ognuno di noi interviene, intessendo nel tempo poesie e mitologie, sul proprio passato. Analogamente per le calcografie che, insieme agli acrilici su tela, sviluppano il percorso; seguendo la pratica comune dell’impressione su carta di alcune “cose” – qui si tratta di centrini e di ricami recuperati, più il successivo intervento a inchiostro – i disegni risultanti evocano i processi di deposito della memoria. Senza eccessi né rischi, entro una dimensione intimista, l’effetto complessivo è di reale coinvolgimento.





L'esercizio del lontano
di Francesca Biagini, 2013
articolo scritto per I.Ovo arte e cultura contemporanea in occasione della mostra L'esercizio del lontano, 2013, a cura di Pietro Gaglianò.


Un esercizio, quello di Elena El Asmar, che ci permette di fluttuare all’interno del nostro lontano, del ricordo, della memoria che, citando Montale, “si aggiunge all’esistente come un’aureola di nebbia al capo.”
Il progetto inedito presentato dall’artista è site-specific per gli spazi della SRISA Gallery e si struttura all’interno dell’architettura della galleria in un percorso organico sostenuto dalla formalità dei materiali utilizzati.

L’esercizio del lontano” è un’attività del pensiero che ci permette di postulare un confronto d’idee, un’espressione dialogica in una sorta di “pedagogia” del lontano. Esso si muove nell’equilibrio/squilibrio  che oscilla tra ricordo e memoria, in cui le immagini che provengono da una dimensione passata si fanno forma (incongrua) nel presente. Il ricordo, quel consolatore molesto, si applica alla memoria che lo trasforma e lo rende hic et nunc; riconsegnandolo come tale, diventa non più qualcosa che si perde nel valore del tempo e delle nostalgie di Mnemosine, ma una cosa (ri)trovata, che l’artista presenta a noi e, reso forma, protrae nel futuro.
L’opera d’arte (che è cosa dotata di un supplemento speciale) è il feticistico oggetto da cui traiamo quel conforto di cui si necessita. Forse si richiede uno sforzo immaginativo che renda presente ciò che è assente e che riconsegni in modo organico le percezioni sfuggenti grazie cui ogni percezione passata viva in quella presente. Questo esercizio del lontano acquista il suo valore nel discostarsi da tale nostalgia per arrivare in una realtà (artista mediator) che lo rende proprio.
Il percorso si compone negli accostamenti guidati dall’allestimento, in cui si sospendono gli ordini temporali. Opere che presentano l’espansione melodica tipica dell’aria, che come nella lirica musicale ci conducono l’una all’altra, come candide sinfonie. La delicatezza dei tratti, rarefatti, ariosi costruiti in sensibili grafismi, sembra provenire da quel lontano, che si stratifica in docili passaggi dell’anima.
Ci troviamo di fronte ad opere che possono assumere valori diversi, sentimenti multiformi come tessuti leggeri, ornati preziosi che si muovono sulle variabili del tempo, in dolci rilievi impercettibili che assumono la matericità di quell’epoca assoluta che è il ricordo. Le immagini morbide sembrano fluttuare in superficie quasi come scritture cuneiformi. Nel cuore della galleria troviamo le sculture, come città sopraelevate sospese nell’etere, architetture mamelucche, fatte di materiali umili, quotidiani, multiformi, che si compongono in una panoramica sinuosa tra cui potersi muovere ed esplorarle nella loro varietà. Città che ci seguono, che ci mostrano un altro mare, situate su piattaforme composite che, alla fine del percorso espositivo, invadono lo sguardo nella loro seducente tridimensionalità, traghettandoci verso un oltre in cui sentirsi altrove.





Il crepuscolo si addice alla memoria

di Claudio Cosma, 2013
articolo scritto per Cultura Commestibile in occasione della mostra L'esercizio del lontano, 2013, a cura di Pietro Gaglianò.


Esistono vari tipi di imitazione. L'imitazione tout court, che è quella del falsario o del plagiario, di solito la più riprovevole, ma anche l'unica ad essere passibile di condanna. Poi esistono quelle dell'imitazione del falso che imita il vero e dell'imitazione del vero che imita il falso. Per non parlare di quella che imita il falso che imita il falso, la più perversa e abominevole.
I motivi per cui si ricorre a queste pratiche possono essere molteplici, comunque quasi sempre complesse da comprendere. Per esempio, per ottenere guadagni illeciti, o per mostrarsi, impossessandosi del lavoro o delle idee degli altri, più bravi e intelligenti di quanto non siamo. 
Esiste, ancora, una diversa specie di imitazione che rientra nel novero, con sostanziali varianti, dell'imitazione del falso che imita il vero. Questo metodo si alimenta di oggetti già esistenti e dell'apparente comodità di servirsene. Il risultato di questa strana pratica è solitamente il kitsch, che nel suo realizzarsi, tende ad imitare una realtà già modificata e corrotta dalla cultura. 
Il cambiamento o snaturamento dell'oggetto si compie  corteggiandolo da un punto di vista sentimentale, blandendo la sua natura superficiale e leggera, amplificandone l'aspetto teatrale (o semplicemente teatralizzandolo) e sopratutto privando questa forma reale della sua funzione. Ci resta in mano, così, un fantasma. 
Inconsapevolmente è pratica comune agli artisti che partendo da questa prassi di mimesi, svolgono le idee che vengono via via formandosi, trasformano, decantano, sublimano ed insomma creano qualcosa che sempre, ritengono, essere novità assoluta e cammino verso l'assoluto. 
Ora, neanche a farlo apposta, tutto questo avviene, veramente, nel lavoro L'esercizio del lontano dell'artista italo-libanese Elena El Asmar.
Nel catalogo, in una frase del curatore della mostra, Pietro Gaglianò, c'è racchiuso, in maniera altrettanto mirabile che nel lavoro stesso il segreto che lo ispira  e la genesi che lo edifica. La frase è questa: “E si costruisce, fatica dopo fatica, “il sogno fenicio” di Elena, come una città sfavillante vista sullo sfondo di un paesaggio costiero”. 
Questo risultato che trascina la memoria personale dell'artista, porta con se anche quella recente dello spettatore che nei flussi e riflussi di quel mare che sembra lambire i millenni che la parola “fenicio” ci evoca, sommandosi alle eteree vette delle città futuriste di Sant'Elia per arrivare, trapassando il tempo, alle città del Pianeta Mongo e alle avventure di Flash Gordon.
Come non immaginare le astronavi del crudele imperatore Ming solcare ininterrotte le torri, gli osservatori stellari, i minareti e le cupole delle cinque città di El Asmar, immerse soavemente in un perenne e sfarinato crepuscolo?




Dispensar pensieri in tempo, 2011-2012
di Pietro Gaglianò, 2012

scritto in occasione della mostra Carta Bianca, 2012, presso Museo Villa Croce, Genova.


Lo spazio che accoglie l'installazione di Elena El Asmar è un'area residuale, il resto di successive ristrutturazioni e cambiamenti di destinazione dell'architettura di Villa Croce. Oltre una porta, che esaurisce la sua funzione aprendosi su un muro cieco, vengono custodite le sculture che appaiono come altrettanti esperimenti sottratti al tavolo di un entomologo o di un alchimista. Il contenitore e le opere che custodisce condividono una natura ibrida, comprendendo materiali ordinari e preziosi, lasciando repentinamente una forma in cerca di una successiva, che viene lasciata in corso di definizione. La costellazione di organismi meticci (in cui si incrociano materiali sintetici e naturali) oppone alla continua volubilità della realtà la possibilità di fermare, e isolare, anche le cose mutevoli, raccogliendo "in tempo" l'estrema eventualità di una riflessione, sulla soglia, e sosta sul confine che le altre opere si propongono di superare.





L'esercizio del lontano
di Elena El Asmar, 2010
scritto in occasione di Madeinfilandia, 2010 e dell'omonima pubblicazione edita da Gli Ori Editori


“il calendario della nostra vita non può che stabilirsi nel suo complesso di immagini”
 Gaston Bachelard, La Poetica dello Spazio

Nell’esercizio del lavoro, del pensiero tradotto in immagine, il mio sguardo volge, continuamente, alla memoria di oggetti caratterizzanti una vita domestica affacciata ai bacini del Mediterraneo, in un paese bianco, il Libano, nel tentativo di far affiorare le visioni che hanno affascinato e contaminato la mia infanzia. 
Negli annuali viaggi e nella continua spola tra l’Italia e la mia famiglia di Jbeil, gli scambi di mobili, tazze, utensili, profumi di spezie e poi, sono divenuti - nel tempo - consuetudine e tentativo di mantenere viva, al di là della distanza terrena, l’appartenenza ad un luogo, ben connotato sia fuori che dentro di me. Così, nello studio dove lavoro, giacciono, sparsi qua e là, oggetti rubati al mio passato, divenuti - nel presente - possibili infiniti, linee che esaltano la mia immaginazione, griglie trasformate in confine - pittorico o meno - dall’attimo in cui prendono forma conquistandone lo spazio.
Ogni modello di cui dispongo si rifà, in realtà, ad un campionario di ricordi - velati - resi al mio tempo secondo le note di una sinfonia - vaga - che aleggia verso un tutto che mi è dato cogliere solo parte per parte. 
Così ... Nel firmamento di forme che si disperdono via nell’atmosfera, avviene il sogno fenicio; nella memoria di una passeggiata lungo le corsie del suk e le sue architetture sgargianti di curve, vertici, arabeschi, ornamenti, intagli e intarsi; nell’equivocabile ma affascinante promiscuità di un mare che rigetta costantemente le sue onde sulla costa di un paese ove l’orizzonte si mescola alle visioni di un “padre” che sta nei cieli.




Nonplusultra
di Sergio Risaliti, 2007
tratto dall'articolo scritto per Exibart in occasione della mostra Nonplusultra, 2007, a cura di Gaia Pasi, presso la galleria Daniele Ugolini Contemporary, Firenze.


E come in un passo di Lucrezio, o meglio come se il poeta latino fosse rinato oggi e scrivesse poesia trovando ispirazione moderna in un bar o al supermercato, una costruzione vitruviana di centinaia di palette di caffè cucite assieme, invenzione che scatena una proiezione sul soffitto della galleria. 
Da qui in poi, il nostro sguardo vaga a leggere sovrumani spazi e infiniti silenzi, una via lattea della quale si possono anche immaginare costellazioni, segni zodiacali, figure mitologiche. E i versi antichi si legano a frasi galileiane, passi delle Cosmicomiche, note di Gino Paoli, arabeschi e trine di architetture siderali. 





C'era una volta ed era celeste, 2007
di Gaia Pasi, 2007
scritto in occasione della mostra Nonplusultra, 2007, presso la Galleria Daniele Ugolini Contemporary, Firenze.


Elena El Asmar c’introduce al suo mondo notturno di trame arabescate. Le ragnatele plastiche grazie al riflesso della luce disegnano sui muri architetture avveniristiche e sagome evanescenti come sogni, creando ambienti lunari da mille e una notte.
Di madre italiana e padre libanese, questa artista assimila le forme espressive di questi due paesi combinandole tra loro. Ne scaturisce un lavoro che, se pur utilizza oggetti comuni come le palette di plastica del caffè, ne distrugge il significato implicito; in questo modo la El Asmar decompone oggetti e li ricompone dando vita a nuove forme. Il lavoro si avvale di luci fredde che compongono riflessi e ombre spostando l’attenzione del fruitore dalla forma solida e oggettuale del manufatto artistico alle forme rarefatte ottenute grazie alla rifrazione luminosa determinata dall’ausilio dei led.













Appunti, diario, ricordanze

di Elena El Asmar
Dichiarazione personale interpretata e letta il 7 ottobre 2014 in occasione di Racconto Di20 progetto a cura di Concetta Modica e Sophie Usunier.



Seduta 
innanzi ad una scala di pennelli
nel palazzo custode dei tesori raccolti 
nei giorni compagni della mia storia 
qui
mi osservo
a ridisegnare un ordine in questa collezione 
di linee, forme e sguardi


Mi sembrano segni da destinare a uno spartito 
un giorno
ogni pentagramma appare vuoto
così le note potrebbero 
iniziare a raggrupparsi 
e collocarsi
in tempi, ampiezze e voci
provando a scriversi in un discorso fatto 
di termini più veloci e leggeri
di una caduta in volo.

Come un esercizio del lontano
come un eco raccolto alla fine
cerco di snodare i fili e risalire all'origine
di una passeggiata, di un ricordo di cielo, di una notte trascorsa ad ascoltare.

La prima delle pennellate si stende su carte che si confondono con la vita.

Passaggio dopo paesaggio qualcosa generosamente si dà, 
si offre, 
stratifica un presente che permette all'umano di generare, 
e generarsi, 
altro da sé, 
nuovo 
ma senza mai morire del tutto al passato, 
come emerso da una profondità dove la superficie non ne è la negazione 
quanto semmai lo specchio, 
l'orizzonte praticato e praticabile 
che separa ed evidenzia il cielo 
da ciò che dal cielo è segnato e limitato.
Altrettanto qualcosa si perde e ne resta un residuo, 
galleggiante, una frattura, 
una lacerazione che segna e modifica l'andatura del tempo. 

Stare in questo spazio di confine, quasi di errore, 
che interrompe la continuità e la linearità alla quale vorremmo esser votati, 
è la posizione più vicina alla natura, 
ed al suo manifestarsi, 
e al suo splendore, 
che di ogni cesura, rilancio e crisi, tesse le lodi. 

Con una matita in mano
mi lascio corteggiare dalle mie stesse fantasie
rotte consumate da diverse durate
e diventa 
il disegno un sismografo dell'anima
capace di captare ogni più remota vibrazione dell'animo umano.
Io ne accetto le conseguenze
non mi sottraggo alla lettura 
e i fogli sono referti 
rubati a chissà quale vento.

Le immagini tentano sempre di raccontarsi e raccontano delle mappe possibili, 
una cartografia dove 
i riferimenti geografici riconducono 
alle posizioni che l'uomo assume 
in questa lenta oscillazione tra sé e ciò che sta fuori da sé, 
nel paesaggio 
e negli istanti a seguire, 
volto verso una terra che da luogo ha l'ambizione di farsi, e divenire, spazio.

Cosa chiediamo alle immagini quando ci infatuano coi loro discorsi, 
quando sussurrano contemporaneamente tutte le parole del nostro vocabolario, 
quando ci allineano con un sentire che 
da monodirezionale, 
da me al mondo, 
diventa poliedrico, 
dove la mia umanità è posizionata al centro ed in relazione con tutto il mondo stesso.

E' la conquista del tempo. 
Il tempo si conquista attraversando le immagini, operandovi all'interno.

Ci rivolgiamo agli oggetti nel tentativo di possederli ma, 
abbandonandone ogni pretesa, 
sono gli oggetti che guardano a noi, 
carichi di sensi e segni che evocano, 
e suggeriscono, 
attraverso la lettura del particolare 
di immaginare l'universale. 
L'oggetto assume così una data posizione nel mondo, 
si fa soggetto 
attraversando e superando il suo essere legato al tempo di ordine cronologico 
per assumere la forza del tempo metaforico, 
di trasporto.  
Siamo ispirati da ogni soggetto di cui ci innamoriamo. 
La confidenza col soggetto genera entusiasmo, 
il divino abita dentro, 
e ci permette di entrare in relazione con quella rete,
fatta di rimandi continui,
che tiene insieme e suggerisce i termini di dialogo 
tra il mondo della forma e quello dell'immaginazione. 
E l'arte, che si muove e prolifera 
in questa corda tesa, 
non risolve 
casomai suggerisce, solletica, impone una crisi, o più crisi, 
là dove la crisi è scelta, posizione, somiglianza con la natura, umanità.

Prendo una rete 
e abbraccio tutte le reti del mondo, 
quelle dei pescatori e quelle degli amori, 
ogni gesto compiuto, 
ogni sforzo scosceso, 
intacca il mio umano sentire, 
mi ricordo di giorni e li lascio viaggiare in me
annuso un profumo di un tempo bambino, 
ma sono strade passate, 
sono orizzonti accatastati uno sopra l'altro 
che non sono mai riuscita ad archiviare 
e distinguere. 

Distruggere, ricucire, scomporre, assemblare, respirare.
Spargo, lancio, divido, cospargo.

Spesso è la fatica che viene a me ed in quel fare,
che è solo un frammento di ogni fare, 
la mia vita è ripercorsa 
piena di ieri
di oggi
di domani 
di oggi al domani.

Se c'è una scultura che prende forma 
io la vedo come passaggi di un pennello
che vorrebbe giocare sulla via che va 
dalla vita alla morte, 
stendo e poi cancello, 
quel che rilascia la mia mano 
sotto forma di strumento 
è tempo sottratto all'oblio ed al ricordo, 
perdo su un foglio, su una tela, 
i minuti che conservo e che mi conservavano 
ed a quel punto non sono più quella che ero, 
inizio a muovermi al buio. 
Ed è in questa lenta contaminazione, 
dove per divenire altro 
si cede un po’ di sé, 
che questa griglia di vita prende forma. 
E’ in questo senso che tento di imitare la natura.

Allora c'è un paesaggio
il paesaggio tende verso l'orizzonte 
e ricordo che per molto tempo mi svegliavo alle 5 del mattino
lo facevo perché amavo che le luci accadessero in me 
insieme a quelle prime del giorno
l'aria tersa e brillante ricordo
assomigliava davvero ad una vittoria sul sonno
credo che la coscienza si sia accesa nell'uomo così
nella convinzione che
tutto possa accadere 
e tutto possa essere 
dove non c'è rumore
ed il silenzio diviene una dimensione d'amore 
tra noi ed il paesaggio d'intorno.

Camminare 
sempre lungo stesso sentiero 
avanti le lodi mattutine
mi ha temprata rispetto a quell'ora 
ed il mio pensiero si è forgiato attorno a quel bagliore 
che pare scivolare e disegnare le cose d'intorno.

Camminando, 
provo ad immaginare cosa possa davvero dirsi riposo, 
al di là di quella scelta estrema,
dettata 
dall'abbandono sconsiderato dei sensi,
che oggi chiamiamo follia 
e dalla quale non c'è più ritorno, 
casa 
e dunque neanche riposo davvero. 

Nel viaggio interpello tutte 
le fantasie d'insieme 
nel tentativo di evocare 
un'immagine, 
sufficientemente capiente, 
da allontanare il pensiero ed il ricordo sotto forma di meri souvenir. 

Vorrei perdermi in un punto che contenga il presente tutto, 
perché i frammenti, separati dal tempo, 
si scagliano verso il mio sguardo troppo velocemente e vivacemente.
Cerco l'orizzonte, 
una linea di consolazione capace di ricollocare la fantasia verso una meta memorabile, 
decisa, che la memoria consola ciò che il ricordo tradisce.
Un quadro non ancora dipinto è un orizzonte, 
una vastità. 
Non basta lasciarsi ritrarre da quello specchio d'acqua 
ed osservarsi muti da lontano, 
è un magnete che ti chiede l'anima, 
ti ruba i giorni, 
ti promette totalità. 
In virtù di questa promessa 
si può solo dimenticare quell'idea di conforto, 
di sicurezza, 
di casa e darsi, 
amanti assetati agli amati.

Preparo allora un luogo per il mio orizzonte bianco 
ed una luce scalfisce le tenebre, 
il sipario cede le vesti, 
mi sembra di apparire all'Ade. 
Ogni passo sotto quella luce, 
ritirata ormai 
ma colpevole di lasciarsi dietro 
una scia troppo lunga da cancellarne le visioni, 
elenca forme di me e degli oggetti 
e la mia ombra 
getta la sua proiezione, 
come fosse una protezione, 
sulle cose d'intorno 
mentre ogni passo 
accelera 
la disobbedienza alla compiutezza.
Questo mondo sfugge alla definizione, 
devoto com'è alla perdita, 
ed io m'immagino nell'atto di raccoglierle tutte queste perdite 
e di farne tesoro 
e divenire io stessa un registro dati 
di questo luogo e di tutte le sue rarefazioni, 
un archivio di assenze, di ombre, di echi. 

Se nulla ci è dato possedere, 
possiamo almeno ascoltare una storia che ci accompagni 
dove una volta le cose erano 
e poi non sono state più. 
Questo passaggio innalza il grado di percezione 
e di amore 
verso le cose stesse. 
Spogliate dalla possibilità di essere viste, 
possono abbracciare una geografia più complessa, 
umanamente e poeticamente 
e ridefinirsi culturalmente, divenire bagaglio intimo, 
immerse in quello spazio dai limiti flebili 
che è lo spazio dell'interiorità.  

Ciò che si imprime nel sogno, 
ciò che si lascia dimenticare, 
ciò che forma gli olfatti, 
quel che accende i desideri, 
ciò che solletica e ci allontana da un marciare certo. 
Se la cima di un albero ci racconta le sue radici, 
e siamo ancora noi benché confusi negli altri, 
una passeggiata può essere il percorso di una vita.

Questo ero quel giorno in cui cominciai a dipingere quel quadro.

Ricordo fossi seduta di fronte ad una finestra chiusa
la finestra era chiusa da un vetro
il vetro era diventato il regno dei ragni
ho sempre amato le ragnatele ed i ragni
mi par che conferiscano dignità anche al paesaggio naturale 
che quel venerdì era fatto di campi, cieli, alberi e uccelli.

Mi sono sempre concessa il privilegio di sbagliare.
Credo che tutto quello che ho fatto sia nato da un errore
un errore nel senso di perdita delle piccole intenzioni
e del punto di partenza
le intenzioni, 
poi i progetti e le volontà
mi hanno spesso tradita
ho perso la strada maestra e cambiato il punto di arrivo
con la sorpresa che dove mi trovavo 
era più interessante di dove sarei voluta io stessa andare.

Poi ho iniziato a vedere
anche nel mondo 
come fossero felici i frutti 
della mano e dello sguardo 
di coloro che non temono l'errare
il vagare
come se le nostre vite siano nate così
registri di precisione fondati su delle variazioni.

Quel giorno in cui ero seduta di fronte alla finestra chiusa
osservando le tele dei ragni
era un giorno speciale e ordinario
come tutti i giorni prima lo erano stati
ero come sempre confusa tra la musica che suonava l'aria
e l'aria distorta che risuonava in me.
Il fumo incessante delle sigarette offuscava il vetro
che era già offuscato a sua volta dalle ragnatele dei ragni
e pareva proiettarmi,
incorniciandone un'icona,
in mezzo alle nuvole 
evaporata eppur presente.


Neanche il tempo di seguirmi in quella forma nuova

che il pensiero grave e gravitazionale 
ci fa scontare ogni burla che vorremmo giocare al presente
allora le nuvole diventano apocalittiche, 
animazioni, 
lontane passeggere di motori e di venti
ed io che pensavo di rubarle e trascriverle in me.

Ho osservato delle nuvole dipinte su un quadro
ed ho visto come la pittura sia in fondo un atto di amore e di generosità
si impossessa delle cose del mondo
e poi ce le restituisce sotto veste nuova 
come fossero immerse 
nell'insieme dei rimandi 
che tali cose evocano 
e ce ne suggerisce gli echi, le distanze, i sogni.

la mia sedia non è più solo una sedia 
è una composizione poetica di forme, di linee e di luci
se seguo la sua via 
di astrazione dal tempo
io torno a visitare la casa dove sono nata
e dove ho scoperto di esser sopravvissuta al buio
profondo e lento 
del sonno notturno e diurno

e qual conforto l'arrivo del crepuscolo
sia esso quello che ci introduce alla notte
sia esso quello che si rigetta nel giorno

Solo la neve, oltre la pittura
mantiene viva nel paesaggio 
la permanenza di quell'ora così breve


ma giusto la neve che cade in campagna

che si sottrae ai segni del passaggio dell'uomo
e dentro di me
mi pare emani lo stesso profumo,
e lo stesso peso specifico,
del barlume e del vespro,
una diminuzione di densità che corrisponde ad un aumento di volume dell'aria.

Ancora immersa 
e coperta dalla mia veste fatta di neve
sento passare la velocità di un aeroplano 
vola 
più basso della finestra chiusa
sembra precipitare 
tra noi e la collina di fuori
e rubarci la luce 
come a volerne modulare la frequenza
ma la mia veste ormai si è sciolta 
e forse con lei tutti i mezzi toni 
ormai il colore è ombra pura 
che si impossessa degli oggetti d'intorno
persiste per poco la nitidezza di un segno
quasi a scongiurare un'idea 
di vicinanza a questo mondo

Ci sono spoglie di carta impregnata di colore
sopra ogni tavolo alle mie spalle
e la stanza è un pavimento bagnato
che solleva i toni luminosi  


e la leggerezza diviene uno stato delle cose
o forse un loro strato
che le fa galleggiare
come solo possono i corpi al mare
dove l'acqua è profonda
ed il cielo getta la sua rete di sollievo
che impedisce ai sensi di annegare.

Ci penso ogni tanto al mare
a come si eleva a orizzonte,
e come l'uomo si elevi al montare del mare,
e la spiaggia diviene uno sguardo calato al patire d'intorno,
il resto, un'attesa.




Vespertine
di Elena El Asmar, Milano, 2015
scritto per Artext, progetto a cura di Dino Incardi, in occasione della mostra Vespertine, 2014, a cura di Matteo Innocenti.


Vespertine
Vento a volte soffice
quello che accompagna
le onde che
riportano a riva i temi - della vita
e la realtà vive,
distesa a me, di fronte dove
il mio sguardo è una proiezione
su un velo che separa
le proliferazioni del tempo
dalle sue dimenticanze.
Da una carta che riassume in sé
una traccia che genera l'infinito, invoco
una forma vicina alla mutevolezza
del fare,
si annulla ogni distanza tra i piani
e la prospettiva è cancellata dalla corrosione che
divora, dilata e diffonde la forma
con lo spazio che non più contiene ma determina
ed è determinato a sua volta.
Si sceglie un'ora prediletta,
nel giorno, che sia
la somma di tutte le ore,
un'ora che affini
e radicalizzi il nostro
essere umani,

sono inafferrabili momenti di lucidità,
rapidi a volare via lontani,
lontano,
il tempo appare e pare divorare i pensieri,
ne diluisce la descrizione.
Questa corsa scoscesa del tempo si impossessa
degli oggetti e delle cose d'intorno che
tornano a darsi, a noi, tradotti
in soggetti,
io li immagino tutti come
indizi di una mappa,
seguo il percorso,
si apre un racconto ma
le parole si perdono nel momento in cui
vengono pronunciate ad alta voce,
ricomincio da capo,
sussurra la voce ed io
vorrei solo essere un silenzio, pausa, un'attesa, l'arresa. 

Arioso Operoso
Gli uccelli e la neve del primo mattino.

Dispensar pensieri in tempo
C'è distanza tra due sguardi che si cercano?

Variabile di sentimento e di tempo
Guarda c'è un asino che vola! Ancora ci guardo.

L'esercizio del lontano
Ho spento tutte le candele, è forse buio questo?




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